Monday, February 17, 2003

Silvio rimembri ancora
Quel tempo di tua vita repellente
Quando fluiva in abbondanza l’oro
Nei tuoi conti correnti ad hoc cifrati,
E tu lieto e colluso
Della legge infrangevi il limitare?
Cesar talor lo studio suo lasciando
Degli imbrogli coglieva il miglior frutto,
E con la man veloce
Lo imboscava per voi di là dai monti.
Eri l’amore delle banche elvetiche,
E tutti i vermi che ti stan dattorno
Plaudivan lieti ad ogni versamento,
Mentre tu all’opre dei tuoi media intento,
Confidavi a Bettino ed a Marcello
Di gloria l’avvenir che in mente avevi.
Di conquistare l’etere pensavi
Per fondarvi il tuo impero di menzogne,
E grazie a queste d’imbottire i crani
Dei coglion che ti davano fiducia.
Lingua mortal non dice
Lo schifo dei segreti tuoi pensieri:
Che progetti, che furti, Silvio mio!
Quale allor concepivi
Sudicio amplesso col poter perverso!
Che stallieri ingaggiavi, che alleati,
Che concento di evviva e piaggerie!
Che gloria l’aderire alla P2!
Che meraviglia l’arringar le folle,
Simulando onestà d’imprenditore
Ma trionfando con la corruzione!
Tu vanti i tuoi successi e il tuo talento,
Tu li poni al servizio della patria…
Della quale ti servi senza freno!
Ora, applaudito da cotanta gente
(Da Fede a Confindustria è un solo coro),
Un delirio ti prende furioso e spudorato,
E libito fai licito in tue leggi,
E proclami che il popolo sovrano
Ti assolve dalle tue peggiori infamie,
Che vittima tu sei dei magistrati,
Che nel falso in bilancio non c’è colpa,
Che di sceglierti il giudice hai diritto,
Che la Procura deve assoggettarsi,
Che ciò che piace a te per questo è legge.

O Procura, o Procura,
Perché non lasci infin che il Cavaliere,
Faccia una buona volta quel che vuole?


Perché tu insisti ad applicar le leggi?
Ancor non sei tu paga? Ancor sei vaga
Di perseguire tutti i suoi reati?
Ma non ti ha detto Feltri con Ferrara,
Non ti hanno detto Bossi, Vito e Boso,
Non dice l’ineffabile Schifano,
Che ciò che il Cavalier comanda e vuole
È perciò stesso legge giusta ed equa?

Le adulazioni del padan cialtrone
E dei fascisti lividi e corrivi
Alla storia Lui spera l’introducano
Quale Duce novello incoronato.
Ma forse un dì le madri alle fanciulle,
Libere nate ed in virtù cresciute,
Canteranno di Lui l’oscena vita
Con questi accenti tristemente tetri:
«Ah! Berlusconi, tristo lestofante,
Turpe mafioso senza alcun pudore,
Di te medesmo grande vantatore,
Di priapismo dell’io pur sempre affetto!
D’essere grande tu sembravi certo,
Ma mirando la sera nello specchio
Le tue sembianze di nanetto tronfio,
Ed il piccolo cranio tuo ritinto,
Un tremendo sospetto t’assaliva,
E dentro te diceva un fil di voce
“Non sarò forse un povero coglione,
Un furbastro meschino e svergognato,
Che cerca invano d’intontirsi, e bela
Sentenze in tutto degne del Bettino,
Del tipo notte che porta consiglio,
Nonché rosso di sera è buon auspicio,
E ancor la gatta che ritorna al lardo
Alla fine ci lascia lo zampino?
Quest’ultima sentenza – poi soggiungi –
Mi turba quasi fosse una minaccia,
quasi mi riguardasse da vicino…
O Fede o Fede tu che hai tanta fede,
In me stesso ridammi tu la fede
Che talor per eccesso d’autocritica
Il rischio corre d’esser men granitica!”»
Così le madri alle figlie canteranno,
E così parlerà l’interna voce.

Ma già dall’ombra emerge la figura
D’Italia nostra, ignuda, triste e schiava,
Che vindice levando la sua mano
Piazza Loreto addita da lontano.

Giacomo Leopardi

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